Note sulla razionalità dell’agire – 4

LE RAGIONI DI KANT, LIBERALE IN PRUSSIA

A quest’articolo su Kant non potevo trovare migliore introduzione dei giudizi espressi da Hayek in Legge, Legislazione e Libertà:

«Sui problemi che costituiscono il principale oggetto della mia trattazione il pensiero umano ha fatto pochi progressi dai tempi di David Hume e Immanuel Kant; e per molti aspetti la mia analisi dovrà partire dal punto in cui essi hanno lasciato l’opera. Furono essi che si avvicinarono più di ogni altro a un chiaro riconoscimento dello status dei valori come condizioni guida indipendenti di tutte le costruzioni razionali».[1]

Hayek si riferisce, in particolare, alla necessità di rigenerare il sistema democratico. La democrazia si è andata via via trasformando in un sistema totalitario asservito a coalizioni rappresentative di interessi organizzati, e si è quindi allontanata dagli ideali che avrebbe dovuto servire. Hayek vuole che si torni ai valori che hanno ispirato l’idea di una società fondata sui principi razionali dell’agire che sono stati proposti dalla tradizione critica inaugurata da Hume e Kant; e che si abbandoni la strada di quel razionalismo mendace che ha invece corrotto la democrazia.

Hayek cita costantemente Kant insieme ai grandi padri del liberalismo classico: Locke, Hume e i moralisti scozzesi, e i vari statisti americani del XIX e XX secolo.[2] Il formalismo della morale di Kant ha buone ragioni perché prescrive come fare (le procedure nelle decisioni), piuttosto che cosa fare nei casi particolari (che possono essere molto differenti). Ma Hayek ricorda in particolare il formalismo della sua filosofia del diritto:

«Per David Hume, Immanuel Kant e Adam Smith le norme di giusta condotta servono principalmente a delimitare e a proteggere le sfere individuali». (LLL, 226)

«Kant comprese più chiaramente di molti filosofi del diritto posteriori che “le norme giuridiche devono astrarsi completamente dai nostri fini, esse sono principi essenzialmente negativi che restringono semplicemente l’esercizio della libertà da parte nostra”». (Ivi, 236)

Il presente articolo vuole essere una breve introduzione alla filosofia politica e alla filosofia della religione di Kant, con particolare riguardo al tipo di rapporto che si creò tra la sua attività intellettuale e il potere politico del suo tempo. Egli visse nell’estremità orientale della Prussia degli Hohenzollern (che nello stemma avevano il motto “Nihil sine Deo”), in una città, Königsberg, corrispondente all’attuale città russa di Kaliningrad (quasi una vendetta del totalitarismo sul liberalismo di Kant!)

Lo scetticismo di Hume scosse le certezze del filosofo tedesco, che decise di rimettere tutto in discussione e di andare oltre i fiochi lumi della generazione di Christian Wolff. Kant abbandonò il suo dogmatismo e intraprese un percorso critico, eleggendo a sua guida la ragione: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo», affermava con enfasi nel saggio “Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?” [3] (1784)

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Dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura (1781), Kant accentuò il suo interesse per la rifondazione della morale su basi naturalistiche, e l’indagine sulle condizioni di un agire pacifico tra gli uomini:

A mezzo della ragione «l’uomo entrò nello stato di uguaglianza di tutti gli esseri ragionevoli, qualunque fosse il loro rango (Gen., III, 22) e poté pretendere di essere scopo a se stesso, di essere riconosciuto da ogni altro come tale, di non essere adoperato da alcuno di essi come mezzo per arrivare a qualche altro scopo».[4]

Non inganni la formula del rifiuto dell’‘uomo come mezzo’, quasi che tale formula volesse legittimare soltanto l’azione umana legata a una sfera morale scevra da interessi. Anzi lo scambio economico offrì a Kant l’occasione per proporre di adottare il principio di ospitalità universale, al fine di superare le difficoltà di relazione dovute alle frontiere tra gli stati, e accelerare la costruzione di una comunità universale degli scambi:

«Questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le condizioni richieste per rendere possibile un tentativo di traffico cogli antichi abitanti. In questo modo parti del mondo lontane entrano in pacifici rapporti tra loro, e questi rapporti diventano col tempo formalmente giuridici e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica».

A tutti i popoli era attribuiva pari dignità nell’esercizio delle attività di scambio, anche se egli conosceva bene le reali condizioni che gli Stati “civili” imponevano alle popolazioni indigene:

«Se si paragona con questo [diritto di ospitalità] la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli)».[5]

Kant usava gli stessi termini di Smith e Hume, nel descrivere la natura e gli effetti delle politiche coloniali degli europei: grandi violenze, scarsi risultati economici, e continue guerre in Europa, che facevano sperperare ogni risorsa da parte degli Stati, che pure ostentavano grande religiosità. Ebbene, in un simile contesto, il razionalismo del filosofo tedesco lo induceva a credere che qualcosa si potesse e dovesse fare, proprio in virtù del superamento delle distanze geografiche, realizzato dalle avventure coloniali. Ed ecco la chiusa del saggio “Per la pace perpetua”, dove egli auspicava l’avvento di un diritto cosmopolitico:

«L’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente».[6]

La federazione da lui proposta non prevedeva rapporti di subordinazione politica tra gli Stati, ma solo rapporti di commercio basati su scambi individuali, avendo tutti gli individui pari dignità come uomini. Seppure con qualche incertezza, anche Bruno Leoni ha affermato che «Kant è soprattutto un individualista» (Il pensiero politico moderno e contemporaneo, liberilibri, Macerata, 2008, p. 47).

Particolarmente significative, dal mio punto di vista, sono le vicende legate alla filosofia della religione di Kant, la cui formazione intellettuale avvenne in un ambiente di relativa libertà, durante il regno di Federico II il Grande (1740-1786). Quello di Federico fu un regno lunghissimo, durante il quale la marginale Prussia diventò la grande Prussia, anche in virtù di un clima di ampia tolleranza, difficile da replicare, come gli eventi successivi dimostrarono.

Alla morte di Federico il Grande, il regno passò nelle mani del nipote Federico Guglielmo II. Nel frattempo, in Francia esplodeva la rivoluzione. Kant pubblicò la Religione nei limiti della ragione (1794), nella quale affrontava il tema della religione a partire dai principi del razionalismo illuministico. Federico Guglielmo II, che nel 1788 aveva già revocato la libertà di religione e di stampa (vigenti sotto il regno dello zio Federico il Grande), proibì a Kant, a mezzo del suo ministro Wöllner, di continuare a occuparsi di argomenti religiosi, nel suo insegnamento. Kant, che aveva 71 anni, rispose senza esitazioni alla reprimenda reale, precisando, tra l’altro, che la religione non è un’invenzione dei re:

«La Casa regnante non ha inventato da sé la propria fede religiosa, ma ha potuto acquisirla solo per la medesima via dell’esame e delle rettifiche operate dalle facoltà competenti (di teologia e di filosofia); di conseguenza è autorizzata non solo a concedere, ma addirittura a esigere che le facoltà, tramite i loro scritti, facciano conoscere al governo tutto ciò che, a loro giudizio, giova alla religione di stato. Poiché il libro in questione non contiene una valutazione della religione cristiana, non ho certo potuto rendermi colpevole di una sua svalutazione: infatti il libro include propriamente solo la valutazione della religione naturale».[7]

Il mio libro [Religione nei limiti della ragione] – ribadì Kant – aveva la massima stima della religione cristiana. La stima era attestata dal riconoscimento che questa religione era in accordo con «la più pura fede morale della ragione»:

«Perché proprio per quell’accordo, e non per virtù di conoscenza storica, il Cristianesimo, tante volte degenerato, è stato sempre di nuovo ripristinato, e potrà esserlo ancora, quando di nuovo si presenteranno eventi simili, che certo non mancheranno anche in futuro». (Ivi, p. 62)

In altri termini, la posizione di Kant è la seguente:

  • È compito precipuo dei docenti indagare «secondo scienza e coscienza» tutto ciò che riguarda l’ambito della morale (ciò che dobbiamo fare), con criteri razionali, «in quanto solo dalla ragione scaturiscono l’universalità, l’unità, la necessità» delle regole di condotta, che sono la «parte essenziale di una religione».

  • La religione è un ambito soggetto a deterioramento e corruzione. E soprattutto, può diventare terreno di scontro nelle relazioni tra gli individui e tra gli Stati. In considerazione di ciò, Kant attribuisce ai filosofi accademici una funzione razionale di controllo sulle questioni religiose, a servizio della pace tra gli individui e tra gli Stati, perché occasioni di scontro per motivi religiosi «certo non mancheranno anche in futuro».

Federico Guglielmo III di Hohenzollern, incoronato re nel 1797, ripristinò in Prussia la libertà di pensiero e di stampa, già vigente sotto il regno di Federico il Grande. E Kant pubblicò a 74 anni il saggio sul Conflitto delle facoltà (1798), nel quale ribadiva orgogliosamente il credo professato in tutta la sua vita intellettuale e accademica.

[1] Hayek, Legge, Legislazione e Libertà [in sigla LLL], Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 11 (trad. modificata).

[2] Hayek, LLL, 67-sg.

[3] In Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino, 1965,  p. 141.

[4] Kant, “Congetture sulle origini della storia” (1786), ivi, p. 201.

[5] Kant, “Per la pace perpetua. Progetto fisolofico” (1795), ivi, pp. 302-sg.

[6] “Sul diritto cosmopolitico”, ivi, p. 305. Vedi anche Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto, ivi, pp. 543-sgg.  (1797).

[7] Kant I., Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia, 1994, pp. 60-sg.

Biagio Muscatello